– A prima vorta che me so bucata è stato a casa de mi padre, co n’amica mia. Me ricordo che me so affacciata e ho visto tutte ‘e macchine parcheggiate. Quant’erano belle, me parevano fiori. Oh, pure le buche me piacevano dimme te! Pensa che mi padre è carabbiniere. Na vorta gli ho messo la robba nella sua borza. Mica se n’era accorto, porello. Ma mo’ nun me levà mi fijo per questo, guarda che se fanno tutti, mi fijo è tutto quello che c’ho.
Possibile che questa demente non si renda conto? Possibile che da due ore mi stia vomitando addosso tutta la sua inutile, patetica vita, senza ricordare nulla di quello che è veramente successo?
– Ma mi dica, quando è salita in macchina l’altro giorno…
– Damose der tu, c’avemo la stessa età, e daje. Gnente, la macchina era quella che s’era comprata Fabio quando eravamo ragazzini, pensa che quanno la Roma ha vinto lo scudetto c’avemo fatto pure l’amore su quer cofano. Che bella giornata…
Ride, ride come un animale questa idiota, con quei quattro denti che le sono rimasti in bocca. Le farò un rapporto che la devo far marcire in galera per il resto dei suoi giorni a lei e quell’altro scimpanzé del suo compagno.
– Mo’, nun te so spiegà il perchè e il per come, c’ho na grande confusione, te che sei na signora, che sei psicologa, me saprai spiegà perchè je vojo bene. È la robba che c’ha rovinato a noi, nun semo mai riusciti a trovà lavoro, sempre che ce semo dovuti arrangià, sai com’è, ma non avemo mai fatto male a nessuno
Appoggia la testa sulle mani e guarda nel vuoto, coi suoi occhi verdi sembra quasi normale. Dicono che siano solo i poveri a finire in prigione. Ma per piacere, tutti abbiamo la possibilità di scegliere. Sento le guardie ci stanno filmando dall’altra parte del vetro. Non mi levo dalla testa che stia mentendo.
-Sai? Mi padre viene da Rieti, nun s’è mai trovato in città, non m’ha mai capita, manco lo so che fa adesso. A me Fabio m’ha sempre voluto bene, m’è sempre stato vicino anche quanno stavamo in galera. Mo’ c’è arrivato sto fijo, mo’ nun me lo puoi levà e daje
Mi appoggia una mano sul mio braccio. La ritraggo come se fossi stata toccata da uno scarafaggio. Puzza di galera, di umanità fetida e senza possibilità di recupero.
Sento una rabbia devastante che mi fa drizzare i capelli e urlo, urlo che suo figlio è morto in macchina ucciso dal caldo, dimenticato sotto il sole cocente di agosto mentre lei si stava facendo un cliente dentro lo sgabuzzino del bar. Apre la bocca sorpresa, poi fa una smorfia di dolore. Troppo tardi, troppo comodo. Urlo che lei e il suo compagno sono due cani rognosi che meritano di morire. Urlo che Dio deve avere una fantasia da regista horror per aver dato un figlio a questo escremento e non a me, non a me. So che le guardie ci stanno guardando, so anche che ho chiuso con le consulenze ma non posso più trattenermi.
Urla anche lei adesso, ci stiamo picchiando, ognuna con la sua rabbia, ognuna con la sua solitudine. Sono entrati in due i poliziotti che riescono a malapena a dividerci. Mi dicono di calmarmi. Vedo la faccia pesta dell’assassina e mi stupisco se penso che gliel’ho fatta io. Se non mi avessero fermata forse… Adesso sono loro a guardare me come un insetto. Ma io non sono pazza, non sono pazza, non sono pazza
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